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Il termine Blockchain è diventato sempre più di uso comune e, generalmente, viene messo in relazione con i bitcoin, sebbene questa moneta virtuale sia solo una delle molteplici applicazioni di un modello architetturale che sta stravolgendo il modo di gestire e “certificare” le informazioni.

I blockchain, infatti, non sono altro che catene di dispositivi (detti nodi) in cui ognuno funge da “garante” del vicino, in modo che l’intera sequenza (e quindi l’informazione che ne è contenuta) sia valida per il semplice fatto che ogni suo nodo è responsabile della non alterabilità del suo vicino. In pratica i blockchain consentono di creare un sistema distribuito di certificazione che, in quanto tale, non è né controllabile da qualche soggetto terzo né alterabile con azioni malevole: questo li rende ideali per la generazione di beni intangibili ma di valore economico, come, appunto, le cosiddette criptomonete.

 

Esistono tanti altri possibili ambiti di utilizzo, dalla logistica ai contratti, dalla finanza all’energia, e così via, strutturando un modello di interazione totalmente decentrato e privo, dunque, di soggetti intermediari che traggano vantaggio economico (e quindi causino costi aggiuntivi) dall’azione di controllo del flusso. Un’ulteriore applicazione, tuttavia, sta prendendo piede, aprendo ad un mercato che, fino a qualche tempo fa, era totalmente inimmaginabile: la compravendita di opere d’arte digitali!

Se c’era una certezza in ambito informatico, infatti, era il caro vecchio COPIA&INCOLLA, ormai amico fedele anche del più neofita degli utenti della tastiera: qualunque file può essere copiato da un dispositivo ad un altro senza comprometterne la qualità. Chiariamo subito: questo dogma resta valido ma i blockchain hanno permesso di creare un nuovo elemento, i NFT (Non-Fungible Token), dei veri e propri certificati di proprietà di opere intangibili. I file, in quanto tali, potranno sempre essere scambiati ma il NFT attesta chi ne è detentore della proprietà e tale informazione non è alterabile a meno che non sia egli stesso a cederne il diritto. Ma allora i NFT hanno finalmente risolto l’annoso problema della contraffazione digitale?

 

Purtroppo no, e il loro utilizzo non tutela nemmeno del tutto chi opera nel mercato delle opere d’arte (digitali). Innanzitutto il possesso di un’opera non ne impedisce comunque la copia e, pertanto, la possibilità di utilizzare un contenuto (ad esempio una foto pubblicata su un sito di immagini a pagamento), senza licenza, né ne rende più semplice la verifica. In secondo luogo, pur limitando la valutazione alla nicchia di contenuti multimediali assimilabili a opere d’arte (ad esempio un cortometraggio, una canzone, un’immagine creata da un grafico, ecc.), la cessione della proprietà via NFT non impedirebbe all’autore di rivendere lo stesso file (eventualmente con minime modifiche) più volte, grazie proprio alla semplicità (ed economicità) di copiare qualcosa di intangibile.

 

Al di là dei dubbi sull’effettivo impatto di questa innovazione e la possibilità di creare un nuovo mercato, c’è già chi lo sta cavalcando con grande prontezza: un fulgido esempio è il cantante Morgan, che ha guadagnato 21mila euro dalla vendita di una sua canzone, l’inedito “Premessa della premessa”… E mai titolo fu tanto azzeccato per qualcosa che è tutto un divenire ma che può cambiare drasticamente il modo di interpretare l’arte digitale…

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